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dal capitolo 9 : La lettera di Eric svela il suo terribile segreto.

 

A proposito di amicizia, tempo fa ho sognato Muriel.

Era assisa in riva ad un ruscello, indossava una tunica bianca ed era bellissima. Splendeva di una luce speciale, fosforescente, che mi attirava nella sua direzione. E più mi avvicinavo a lei più mi sentivo bene. Ero quieto, rilassato. Camminavo piano, in silenzio, come al rallentatore. Una volta entrato anch’io nel suo raggio luminoso mi inginocchiai per raccogliere dell’acqua. Era così buona, pura e fresca! Gliela porsi, nell’incavo delle mie mani: ne bevemmo un sorso insieme, a turno, come se stessimo dividendo un calice colmo di vino consacrato. Poi mi prese fra le sue braccia e allora mi resi conto che io ero molto giovane e lei una donna fatta. Mi cullò come si culla il proprio bambino stremato dalla febbre per farlo addormentare; accennò una nenia, mi accarezzò, fino a quando il benessere di quell’affetto si impossessò di me, entrò nel mio corpo e lo alleggerì sino a farmi diventare lieve come una piuma. A questo punto rammento che sospirai e mi alzai in volo: finalmente in pace. La prego di dare pure a lei questa lettera, perchè possa sapere che persino nel mio miraggio notturno è riuscita a donarmi luce, calore, comprensione e affezione. Se stai leggendo, Muriel, ti prego, non piangere. Anch’io ti voglio tanto bene! Solo questo conta. Ti manderò...... il mio sogno, affinchè riesca a contenere le tue lacrime, immaginandomi sereno. E, credimi, tu ce la farai! Ti ho visto lottare, piccolo passerotto ferito, con la forza di un leone.

 

E un’altra parte del capitolo 9

 

Per la professione che lei esercita sa benissimo quanto sia difficile, traumatizzante e debilitante di convivere con un genitore depresso. Per un bambino è la fine della sua infanzia, prima ancora che sia iniziata e abbia potuto goderla spensieratamente, com’è suo diritto. Ebbene, io non ricordo altri avvenimenti di quegli anni se non che dopo la scuola dovevo correre subito a casa, per paura che la mamma commettesse qualcosa di “ irreparabile ”, come lei stessa definiva i suoi istinti suicidali. La trovavo quasi sempre distesa sul divano, che non faceva nulla; non leggeva, non guardava la televisione, non ascoltava la radio. Allora le preparavo il the: invece di essere lei a farlo per me, come le altre mamme. Prima tiravo le tende per far entrare la luce, in quanto il soggiorno era spesso in penombra; poi aprivo le finestre, perchè si respirava un’aria stantìa, mista a sudore, odore di piatti sporchi e muffa. Un tanfo che mi perseguita ancora adesso. Non avevo fratelli, nessuno con cui dividere quel peso, quella responsabilità; non ne parlavo neppure con gli amici, perchè mi vergognavo di lei. Ma le volevo bene lo stesso e non volevo che un giorno arrivasse qualcuno per portarla via e metterla in un “ apposito istituto ”, come era stata la velata “ minaccia ”di un’assistente sociale chiamata dai nostri vicini di casa (che avevano intuito la situazione ). Questa era la cosa che lei temeva di più: e anch’io, in quanto in quel caso sarei rimasto veramente solo. Lei era il mio unico punto di riferimento; ed io ero il suo punto di riferimento, il suo sostegno. La sua infermità era diventata il nostro segreto ed io, nella mia ingenuità, ero convinto di essere in grado di aiutarla . Spesso cercavo di catturare il suo interesse ma invano perchè era troppo concentrata sulla sua malattia. Non giocava mai con me, non mi coccolava mai! Rammento soltanto una volta in cui mi fece una rapida carezza sul capo, riconoscente per il fatto che ero riuscito a comprarle una bottiglia di vino al supermercato ( con l’aiuto di un ragazzo più grande, perchè non si possono vendere alcolici ai giovani sotto i sedici anni, a cui avevo dato, in cambio del favore, il mio preferito libro di fumetti ). Quella sera, nel mio letto, cominciai ad accarezzarmi io stesso sulla testa, come aveva fatto lei, per rivivere profondamente quell’emozione. Da quel momento lo feci spesso, per rifornirmi affettivamente. Per autoconsolarmi mi masturbavo frequentemente, “ ferocemente ”, quasi con rabbia, per ricevere dal mio corpo l’unico piacere immediato di cui potevo godere. Dopo mi sentivo ancora più solo. Crescevo male, i miei compagni mi consideravano un po’strano e diventavo sempre più insicuro nei confronti dell’ambiente esterno proprio perchè nessuno mi aiutava ad esplorarlo come solo una mamma può fare, per agevolare lo sviluppo intellettivo e sociale del suo bambino. Contemporaneamente la mia ristretta vita familiare, che facevo tanta fatica a reggere, mi rendeva sempre più timoroso ed ansioso. Mio padre era andato via di casa già da tempo. I primi sintomi della depressione di mia madre comparvero dopo la mia nascita. Lui non la capì. Non ci provò nemmeno. Non riusciva a comprendere, nella sua ottusità, che cosa le mancasse, di che cosa si lamentasse, che motivi avesse per sentirsi oppressa, infelice: “ aveva un figlio, lui lavorava, manteneva la famiglia, le aveva comprato una lavatrice nuova, un battitappeto e una lavapiatti. Persino un’utilitaria di seconda mano! Che cosa cavolo voleva ancora ”,  lo sentivo urlare di notte ogni volta che litigavano aspramente. Allora infilavo la testa sotto il cuscino per non sentire quel clamore e mi addormentavo inquieto, spaventato. Il giorno dopo lei non usava la lavatrice, non aspirava la polvere con il nuovo elettrodomestico, non metteva le stoviglie in lavapiatti e non andava a fare le spese con l’automobile di seconda mano. Questo durò per giorni e giorni; per mesi ed anni. Dopo di che mio padre disse che si era stancato di portarci sulle spalle: fece le valige, ci scrollò di dosso e se ne andò. L’ultima frase che pronunciò prima di sbattere la porta dietro di sè fu:

“ e adesso, invece di stare tutto il giorno buttata sul divano, inespressiva come una bambola di porcellana, comincia ad occuparti e a preoccuparti di tuo figlio, che si veste come una ragazzina, parla come una gallinella e cammina ancheggiando come se usasse scarpe con i tacchi a spillo. Prima che diventi una checca! ”

Quelle parole mi annientarono! E, mi creda, caro Dottore, neanche dopo secoli di psicoterapia sarei riuscito a rimuoverle! In seguito sentii spesso il termine “ checca ” usata nei miei confronti e altri sinonimi del genere, a cominciare dal paragone con il finocchio...... ma come lo pronunciò lui fu l’insulto più aspro, più spietato, brutale e cattivo che abbia mai ricevuto. Da quel momento, come Le accennai precedentemente, mia madre ed io rimanemmo soli; e da quel momento lei cominciò a bere. Come avrei voluto pure io una mamma che giocasse con me, che mi aiutasse a fare i compiti, che preparasse una torta per il mio compleanno ed organizzasse una festa con i miei compagni di scuola; che mi conducesse al cinema d’inverno e ai giardini d’estate. Che mi accompagnasse allo zoo, che a me piaceva tanto e mi insegnasse ad andare in bicicletta. Una mamma degna del suo compito, di cui essere fiero. Infine una mamma che alla sera prima del sonno sfiorasse la mia fronte con un bacio, dicendo: “ Sogni d’oro, bambino mio! ” E adesso viene il peggio.

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